16 novembre 2014 / 33^ domenica del tempo ordinario

16 novembre 2014
XXXIII domenica
Pr 31,10-13.19-20.30-31 ; Sal 127(128) ; 1Ts 5,1-6 ; Mt 25,14-30
In questa 33^ domenica del tempo ordinario, Pasqua della settimana, la Parola di Dio ci pone di fronte a due questioni fondamentali per la nostra vita: da un lato il dono e dall’altro il dovere.
Il dono. Il dono siamo noi stessi, una preziosità per noi e per il mondo intero, pezzi unici di una raccolta inestimabile. Di questo noi dobbiamo esserne convinti. Ciò che siamo è ciò che il creatore ha messo nelle nostre mani, proprio come quell’uomo che mette nelle mani dei suoi servi tutto ciò che possiede perché parte per un lungo viaggio. Proviamo davvero a chiederci cosa ne stiamo facendo di questo dono.
Sono almeno due le possibilità con cui posso utilizzare questo dono e sono ben presentate nella parabola.
La prima è quella di far fruttare questo dono, ovvero fare tutto ciò che ti è possibile, anche rischiando, pur di farlo crescere.
La seconda è quello di nasconderlo bene per non rischiare di perderlo.
Quante volte mi sento dire “del male non ne faccio a nessuno quindi sono apposto”. È proprio la condizione del servo malvagio e infingardo, non perché fa delle cose cattive, ma perché non fa delle cose buone lasciando così inutilizzati, intatti, i doni ricevuti. Guardate che ogni volta lo diciamo nel confesso: “ho peccato in pensieri, parole opere e omissioni”.
È interessante vedere come il senso di responsabilità si manifesta nel coraggio di tentare.
Proprio qualche giorno fa si discuteva a tavola quale coraggio ci vuole a fare un salto nel vuoto, il così detto bungee jumping, o … qualsiasi altro sport estremo. Pare proprio che sino gli sport più in voga del momento. Ebbene se questo coraggio lo incanalassimo nel fare ciò che è in nostro potere grazie alle capacità che ognuno di noi ha ricevuto in dono … sapremmo sempre cosa fare, non continueremmo a lamentarci che le cose non vanno e soprattutto ci sarebbe meno depressione.
In un commentario ho trovato queste bellissime parole: “La vita viene sprecata allorché non vi facciamo succedere niente. La fede diventa inutile («non utilizzata») quando non provoca qualcosa di diverso, di insolito, di stupefacente. L’amore muore (e viene sepolto) nel momento stesso in cui non produce più nessuna sorpresa.”
Ma allora cosa poter fare per risorgere? Per non divenire un servo malvagio e infingardo? Per non sprecare ciò che siamo? La prima lettura mette in luce le qualità della donna forte, non si tratta certo di muscoli o di mascolinità, l’autore parla della sua perseverante e tenace laboriosità, non fondata sulla logica del guadagno per se stessi bensì su un rapporto con il tempo assolutamente vigilante e capace di approfittare di ogni occasione e di ogni situazione per dare il meglio di se stessa, e di farlo a favore degli altri, con un’attitudine significativa che fa la differenza nel senso della qualità: “Si procura lana e lino e li lavora volentieri con le sue mani. Stende la mano alla conocchia e le sue dita tengono il fuso. Apre le sue palme al misero, stende la sua mano al povero”. Eccolo il segreto, messaggio parallelo a quello del vangelo, mettere a frutto le proprie qualità con uno sguardo attento alle necessità degli altri, in particolare dei più bisognosi.

Mi sembra molto bella la preghiera di uno sconosciuto del XIV secolo:
Cristo non ha mani / ha soltanto le nostre mani / per fare oggi il suo lavoro.
Cristo non ha piedi / ha soltanto i nostri piedi / per guidare gli uomini / sui suoi sentieri.
Cristo non ha labbra / ha soltanto le nostre labbra / per raccontare di sé agli uomini di oggi.
Cristo non ha mezzi / ha soltanto il nostro aiuto / per condurre gli uomini a sé oggi.

Noi siamo l'unica Bibbia / che i popoli leggono ancora / siamo l'ultimo messaggio di Dio / scritto in opere e parole.

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