La famiglia: tra dono e vocazione.
28 dicembre 2014
S. Famiglia di Gesù, Maria e
Giuseppe
Gen
15,1-6;21,1-3; Sal 104(105) ;
Eb 11,8.11-12.19 ; Lc 2,22-40
In
questa prima domenica dopo Natale, domenica della S. Famiglia, le letture ci
illuminano sul significato del figlio e su quale è il compito dei genitori nei
confronti del proprio figlio.
La
prima lettura, tratta dal libro della Genesi ci viene raccontata la promessa
fatta da Dio ad Abramo. Abramo e Sara sono ormai anziani e la loro speranza di
avere figli è ormai tramontata. Abram dirà infatti a Dio “Ecco, non mi hai dato
una discendenza e un mio domestico sarà il mio erede”. Ma la risposta di Dio lo
lascerà senza parole: “Non sarà costui il tuo erede, ma un nato da te sarà il
tuo erede”; “Guarda in cielo e conta le stelle, se riesci a contarle … tale
sarà la tua discendenza”. E così nascerà Isacco, il figlio della promessa.
Quale
è l’insegnamento che ne viene a noi?
Un
figlio è sempre un dono meraviglioso di Dio. Purtroppo oggi lo riteniamo di più
un diritto dei genitori. Accogliere un figlio quindi significa aprire a Dio le
porte della propria casa, della propria intimità. Ecco perché la gioia della
maternità e della paternità è più grande di tante altre gioie!
Ma
accogliere un figlio significa anche accogliere la responsabilità di amarlo.
Il
dono ricevuto infatti è un dono particolare, non appartiene ai genitori come le
cose. Un figlio e una figlia sono dei tesori ma non materiali, sono persone e
come tali appartengono a Dio. Ecco perché questo dono è particolare, ci è dato
ma resta suo.
Pensiamo
alla dolorosa esperienza che Abramo fece quando, come ci ricorda la seconda
lettura, “messo alla prova, offrì Isacco, e proprio lui, che aveva ricevuto le
promesse, offrì il suo unigenito figlio, del quale era stato detto «Mediante Isacco avrai una
discendenza».”
Questo ci insegna che i
genitori non devono cercare nei figli la propria soddisfazione, bensì il bene
loro in quanto persone amate da Dio, che devono conquistare a poco a poco la
loro autonomia e vivere la loro propria vocazione. Proviamo a dirlo con altre
parole. Il figlio non deve essere né il clone dei propri genitori, né la
realizzazione del desiderio non realizzato dai propri genitori. Un figlio va
lasciato crescere secondo la propria indole (come tra l’altro promettete
durante il matrimonio) perché questo significa lasciar germogliare i semi che
Dio ha lasciato in lui.
Certo tutto questo non è
facile da realizzare ecco allora l’insegnamento del vangelo.
Maria e Giuseppe, consegnano
il proprio figlio nelle mani di Dio, proprio come facciamo noi chiedendo il
battesimo per i nostri figli. Dio lo ha donato loro e a Dio viene offerto per
riconoscere che egli gli appartiene. Con questo gesto si evidenza che i
genitori sono soltanto, per così dire, gli amministratori di quella creatura, non
i proprietari. Tutte le difficoltà che i genitori sopportano sono sopportate e
predette anche per la santa famiglia: “anche a te una spada trafiggerà l’anima”.
Ma questo non deve spaventare, infatti il Vangelo termina con quelle parole
così piene di speranza “Il bambino cresceva e si fortificava, pieno di
sapienza, e la grazia di Dio era su di lui”. Sono parole che si dovrebbero dire
per ognuno dei nostri figli. La gioia della famiglia proviene propria dal
vedere i propri figli crescere e la famiglia ha il compito di favorire questa
crescita, di rispettarla e nello stesso tempo di guidarla; ha il compito di
favorire il pieno sviluppo di tutte le qualità che Dio ha consegnato ai propri
figli per l’adempimento della loro vocazione. La famiglia dev’essere orientata
anzitutto verso questa missione: stimolare il realizzarsi della vocazione dei
propri figli.
In ogni famiglia infatti ciascuno
dei figli ha la sua vocazione personale, e la famiglia ha il compito di creare
tutte le condizioni favorevoli affinché ogni suo figlio possa portare a
compimento l’opera iniziata da Dio all’inizio dei tempi. Questo è l’unico modo
affinché i figli vivano una vita veramente bella, degna di Dio e utile al
mondo.
Buon cammino.
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